Certificazione halal italiana: cosa prevede e come funziona? Intervista ad Annamaria Aisha Tiozzo

     

    La certificazione halal è un requisito fondamentale per attestare la corrispondenza di un prodotto alimentare rispetto ai dettami della religione musulmana, che nel nostro Paese conta oltre 2,6 milioni di fedeli, con una crescita rilevante di quelli con cittadinanza italiana (dati Istat-Ministero dell’Interno). Al di là dei precetti religiosi, infatti, i consumatori islamici costituiscono un bacino consistente anche in Italia, dato che spinge produttori, distributori ed enti certificatori a soddisfare questa domanda, in ambito alimentare e non. Ma cosa prevede e com’è strutturata la procedura? Ne abbiamo parlato con Annamaria Aisha Tiozzo, fondatrice e presidente dell’ente di certificazione halal italiano Whad Italia (World Halal Development).

    Halal: cibi consentiti e proibiti dalla religione musulmana

    Per introdurre l’approfondimento, Annamaria Aisha Tiozzo ci ricorda in breve di cosa si tratta quando si parla di halal e di alimentazione consentita dall’Islam, come abbiamo visto in un nostro precedente articolo. “Tutto ciò che Dio ha creato è lecito e buono, ad eccezione di ciò che è dichiaratamente illecito: fonti di queste proibizioni sono il Sacro Corano e la Sunna. Gli alimenti haram, quindi illeciti, sono il suino e i suoi derivati, gli altri animali (e derivati) che non siano stati macellati con rito religioso, il sangue, gli animali già trovati morti e l’alcool di origine fermentativa. Mentre queste cinque categorie sono haram per tutti i credenti, vi sono interpretazioni differenti delle varie scuole giuridiche religiose, sia sunnite sia sciite, che, pur non avendo carattere di obbligatorietà – l’essere umano, infatti, non può creare né emanare proibizioni – indirizzano le scelte dei fedeli. Inoltre, è proibito mangiare ciò che è avariato, ciò che è contaminato con sostanze illecite o impurità religiose (najis) e gli animali che siano stati volutamente e ripetutamente alimentati con sostanze illecite o impure”.

    Rawpixel.com/shutterstock.com

    Certificazione halal italiana: com’è strutturata e che percorso prevede?

    Come tutte le certificazioni alimentari, quali quella del biologico o quella per i prodotti senza lattosio, anche i cibi halal devono rispettare un percorso preciso. Tiozzo precisa che “l’azienda intenzionata a certificare halal i suoi prodotti deve per prima cosa implementare un HAS (halal assurance system) in azienda, ossia un piano di qualità halal. Senza quest’ultimo, non sono possibili produzioni, neanche del singolo lotto. Nell’implementare tale piano, l’azienda deve prestare particolare attenzione ai punti critici in merito ai precetti musulmani, che nel settore alimentare ho definito HHACCP (halal hazard control point), termine oggi usato in tutto il mondo. L’azienda aggiunge – e non sostituisce – ai normali punti critici altri aspetti che hanno natura esclusivamente religiosa. Dopo aver scelto la norma di riferimento halal a cui vuole o deve attenersi, chiede all’ente di certificazione un audit, che può comprendere o no un pre audit, ovvero una pre-valutazione documentale. In genere, preventivamente i membri del comitato halal interno aziendale seguono un corso di formazione sui concetti base e sulla norma applicata”.

    L’audit, prosegue Tiozzo, “si compone di una parte documentale, con particolare riferimento allo stato delle materie prime e all’applicazione della norma da applicare, di una valutazione della conoscenza dei concetti base halal e delle norme. Inoltre, è prevista una valutazione dello stabilimento e della produzione, dalla materia prima al prodotto finito, andando a verificare la correttezza dei processi e delle informazioni, l’assenza di contaminazione con sostanze haram o impure, e finanche il packaging e la comunicazione. Questo processo non deve spaventare le aziende, perché non si discosta molto da quanto richiesto da altre certificazioni di prodotto o di sistema, che in genere già possiedono. I requisiti, infine, variano anche in base alla dimensione dell’azienda”.

    Chi certifica e con quale metodologia?

    Descrivendone le peculiarità, la fondatrice di Whad puntualizza che “mentre tutte le religioni e molte filosofie hanno delle prescrizioni alimentari, solo la religione islamica e quella ebraica hanno istituito delle certificazioni. Parlando di halal, tale certificazione è basata non solo sulla shahada (testimonianza religiosa) e sulla capacità tecnica, ma rispetto a precisi standard. C’è, perciò, una differenza tra un’attestazione di liceità e una certificazione halal, della quale, secondo le normative, può occuparsi solo un ente di certificazione con determinate caratteristiche”, che sono:

    • essere di proprietà e management islamico;
    • avere auditor musulmani, con determinate caratteristiche tecniche e di osservanza religiosa;
    • avere auditor religiosi (Shariah auditor);
    • avere un comitato religioso e tecnico per la decisione e applicare standard halal nazionali o internazionali pubblicati;
    • avere un’organizzazione conforme con quella prevista dalla norma ISO 17065.

    Elena Eryomenko/shutterstock.com

    Cibi halal: diffusione, volume e andamento del mercato

    Oltre alle specificità della certificazione halal, è interessante saperne di più sulle dimensioni e sull’andamento di questo mercato. Tiozzo sottolinea che “non ci sono numeri precisi circa le aziende certificate halal in Italia, che comunque ormai sono più di mille. In Europa, l’Italia è al terzo posto dopo Inghilterra e Francia per numero di aziende certificate: 15 anni fa, nel 2007, il nostro Paese era all’ultimo posto, anno in cui poi Whad Italia – primo ente di certificazione italiano – si è registrato secondo le normative internazionali. Fino al 2016, il trend ha avuto una crescita media a livello mondiale del +12% annuo, mentre a livello europeo per il periodo 2020-2028 e ‘previsto un tasso di crescita annuale composto attorno al +5,21% (dati Inkwood Research)”.

    Il trend, precisa Tiozzo, “ha avuto uno sviluppo anche dal punto di vista dei segmenti e dei mercati. Quindici anni fa le aziende e i consumatori conoscevano la certificazione halal solo riguardo alla macellazione e ai prodotti a base di carne: c’è stata un’evoluzione che ha portato progressivamente alla certificazione di carne, pesce, formaggi, cibi freschi e trasformati, surgelati, conservati in atmosfera modificata, dolciumi e bevande, e via via a tutti gli altri prodotti alimentari e ai loro ingredienti. In linea con la pubblicazione di nuovi standard – non può esistere certificazione senza una norma di riferimento – la certificazione halal è passata dal food al feed, è ha coinvolto anche cosmetica, farmaceutica, logistica, servizi, turismo e hospitality. Infine, il posizionamento: si è passati dal piccolo negozio etnico ai corner dedicati nella grande distribuzione, poi ai negozi fisici e online – anche solo made in Italy – completamente dedicati ai prodotti halal”.

    Quali sono i prodotti halal più richiesti?

    Dopo aver compreso l’ampiezza delle categorie merceologiche oggi certificabili, sorge spontanea questa domanda, che riporta alla base del ragionamento sulla struttura di questo mercato. “Ci sono cibi per i quali il consumatore sente più forte la necessità di una certificazione halal: tra questi la carne, il pesce – in particolare se di allevamento o processato – i formaggi, ma anche i piatti pronti e tutti i prodotti che possono contenere ingredienti di origine animale (comprese gelatine, strutto, caglio, ecc.) o alcool di origine fermentativa. Se parliamo invece di consumi, al primo posto tra i prodotti halal ci sono dolci, caramelle, cioccolatini e prodotti per bambini, mentre al secondo la carne e i suoi derivati, seguiti da formaggi, conserve e piatti pronti. La certificazione halal, però, è richiesta anche quando la materia prima diventa ingrediente o condimento di preparazioni, o è destinata, nel settore horeca, a ristoranti o esercizi pubblici che abbiano richiesto tale attestazione. Per questo motivo c’è grande richiesta nei settori caffè, olio (in particolare d’oliva), aceto, zucchero e sale, soft drinks, aromi e preparazioni per la gelateria e la panificazione”.

    Odua Images/shutterstock.com

    I consumatori musulmani formano un insieme molto variegato di etnie e abitudini alimentari

    Parlare di un consumatore musulmano in modo generalizzato, come un’identità unica, è impossibile. Infatti, aggiunge, la fondatrice di Whad, “ci riferiamo a circa due miliardi di persone, con etnie, abitudini e gusti diversi a tavola, presenti anche in aree del mondo che tendenzialmente non si è portati ad associare all’Islam. Avreste mai pensato, ad esempio, che quasi un quarto della popolazione russa è musulmano? Non da ultimo, ci sono orientamenti diversi nel contesto della religione, e per noi musulmani le differenze sono benedizioni. Nel 2017 Whad Italia ha presentato a Tuttofood Milano il programma ‘L’halal nella grande distribuzione italiana ed europea’, identificando il profilo del consumatore musulmano in Italia. È stata tracciata una localizzazione geografica in base alle etnie, per suggerire quali prodotti halal inserire nei punti vendita, con un’attenzione ai diversi gusti alimentari e al livello di adattabilità alla dieta locale. Un dato, però, è significativo: a prescindere dall’etnia, sembra che il consumo di carne accomuni gran parte dei musulmani, in controtendenza rispetto al trend plant based e alle tendenze più recenti mirate alle alternative ai prodotti di origine animale”.

    Macellazione halal in Italia: cosa dice la legge e come e dove si esegue?

    Nel quadro dell’alimentazione halal, un capitolo fondamentale va riservato alla macellazione, che, come precisa Tiozzo, “come quella kosher è definita macellazioni in deroga, rispetto all’obbligo di stordimento preventivo dei capi, che tuttavia è ammesso per l’halal in alcuni casi specifici, e comunque eventualmente da eseguire dopo la iugulazione (taglio della gola, ndr) in caso di sofferenza dell’animale. I parametri per l’applicazione dello stordimento sono riportati da tutti gli standard halal. Attualmente, la norma di riferimento è il Regolamento (CE) n. 1099 del 24 settembre 2009 sulla protezione degli animali durante l’abbattimento, entrato in vigore nel 2013. Così come il regolamento precedente prevedeva una disciplina della macellazione rituale molto essenziale – lasciando agli Stati membri margini di adattamento – anche il nuovo regolamento, pur introducendo diverse novità, risulta orientato nel continuare a riconoscere un’ampia discrezionalità agli Stati membri nell’applicazione effettiva della deroga allo stordimento”. Nei Paesi europei, infatti, la regolamentazione sulla macellazione rituale e sullo stordimento dei capi è differenziata.

    Va sottolineato che – prosegue Tiozzo – “benessere animale e attenzione alla sofferenza sono i cardini anche della macellazione religiosa, che invece viene socialmente percepita come una macellazione crudele. Dal punto di vista religioso, l’uomo non è superiore agli animali o alla natura, ma ha invece il compito di proteggerli e salvaguardarli. Al tempo stesso, con la macellazione rituale si effettua una preghiera sull’animale, riconoscendo che solo a Dio appartiene la vita e la morte di ogni essere umano, e che pertanto l’uccisione di un animale – che può avvenire solo per cibarsene e senza sprechi – deve essere fatta con coscienza e consapevolezza, mai per sport o capriccio, ma al tempo stesso con un’attenzione alle norme igieniche e alla salubrità della carne. Da sempre si discute sulla maggiore o minore sofferenza con la iugulazione tradizionale o quella religiosa, che in realtà di poco differiscono per la parte successiva allo stordimento. Non mi addentrerò sulla questione, che richiederebbe un approfondimento dedicato, ciò che posso invece suggerire è una maggiore regolamentazione della professione di macellatore rituale, in quanto il problema cardine è la competenza, anche tecnica, di chi effettua questa macellazione, che potrebbe – quella sì – evitare molte inutili sofferenze. La macellazione halal, ad ogni modo, deve sempre essere fatta in un macello autorizzato, sotto la supervisione di un veterinario, da un musulmano adulto praticante e formato”.

    Bannafarsai_Stock/shutterstock.com

    Halal e rapporto con le altre certificazioni alimentari

    La certificazione halal si interfaccia con altre certificazioni alimentari, e a questo proposito Tiozzo precisa che “nel 2013 Whad Italia ha lanciato a Roma il programma halal-gluten free, abbinando i due protocolli per l’export verso Paesi a maggioranza islamica. Alcuni dei Paesi con maggior tasso di celiachia, ad esempio, sono i Paesi nord-africani, dove il colonialismo ha introdotto nuove abitudini, favorendo la diffusione di nuove allergie alimentari. Per quanto riguarda le altre certificazioni, pur non essendoci sempre una reale corrispondenza, a livello di marketing l’halal viene sempre più associato al bio, al vegetariano e all’organico, ma anche all’ogm-free, e ai prodotti non testati sugli animali. Come una risposta alternativa a una tendenza globalizzante che omologa anche il cibo, l’halal si promuove come locale, tracciabile ed eco-etico, concetti già molto diffusi e apprezzati nella realtà italiana, dai consumatori come dalle imprese”.

    Inoltre, come spiega Tiozzo, i cibi halal made in Italy sono attrattivi per i consumatori musulmani, considerando che sono migliaia i ristoranti italiani nel mondo, molti dei quali devono rinunciare a ingredienti tipici in assenza di certificazione halal. “Vorrei però condividere una riflessione sull’importanza di offrire un servizio di cucina halal anche nella ristorazione italiana. Se non siamo in grado di accogliere adeguatamente i turisti musumani che arrivano in Italia, limitandoci a indicare solo i ristoranti etnici, come possiamo sperare che tornati in patria si siano innamorati delle nostre specialità regionali?”.

    Conoscevate le caratteristiche della certificazione halal? Avete mai acquistato prodotti alimentari con questa attestazione?

    L’articolo Certificazione halal italiana: cosa prevede e come funziona? Intervista ad Annamaria Aisha Tiozzo sembra essere il primo su Giornale del cibo.

    Comments are closed.