La pecora di Marco Ambrosino è un favoloso inno alle ricchezze nascoste del Mediterraneo
Apprezziamo particolarmente l’impegno di Marco Ambrosino volto a studiare e divulgare le culture del Mediterraneo, attraverso ricerche antropologiche e storiche, passando per il cibo e le infinite contaminazioni avvenute nei millenni. I menu e i singoli piatti di Sustanza viaggiano insieme ai popoli mediterranei, ricercando quella matrice comune che ha reso questo mare culla delle più grandi civiltà al mondo. Oggi più che mai luogo di centrale attenzione, fucina di grandi e veloci cambiamenti che determinano e condizionano la geopolitica tra oriente e occidente. Se ne potrebbe parlare all’infinito ed è facilmente intuibile l’intensità del fascino che ha rapito il nostro Ambrosino, diventando stimolo infinito di creatività e di una curiosità colta, che vuole esprimere una propria analisi e porre speranza nel futuro.
Uno dei piatti simbolo del suo percorso degustazione è lo Stracotto di pecora, che ritroviamo in ogni cambio menu legato alla stagionalità, seguendo appunto l’avvicendarsi dei prodotti indotto dalla natura, ponendo insieme più elementi provenienti da culture di paesi diversi. Nessuno sia escluso, si legge tra le righe.
Come l’allevamento dei bovini ha caratterizzato i paesi del nord Europa, così quello degli ovini, e della pecora in particolare, è antico retaggio del sud, dei popoli mediterranei. Diventandone spesso simbolo, protagonista di racconti nei quali si concentra l’importanza culturale delle genti del Mediterraneo. Evidenziando la significativa influenza che queste hanno avuto sullo sviluppo culturale, sociale e politico non solo in Europa, ma oltre, riconfermandosi motore principale di sviluppo e, inevitabilmente, di contaminazioni importanti, anche nel mondo del cibo.
Tornando alla pecora di Ambrosino, è già singolare che uno chef oggi scelga questa tipologia di carne come portata principale. Abbiamo provato anche la sua nuova versione legata alla primavera: Stracotto di pecora, fave alla brace, salsa chermoula, olio di mirto.
La pecora viene marinata per 24 ore in una salamoia composta da vino, acqua, sale, erbe aromatiche e spezie. Successivamente cuoce lentamente per circa 10 ore in un brodo concentrato, ottenuto dalle ossa della pecora stessa e arricchito da erbe, limone e ginepro. Una volta cotta, viene separata dal liquido di cottura che poi si fa ridurre, arricchito con una salsa di origine algerina chiamata chermoula, a base di coriandolo, prezzemolo, aglio, cumino e paprika. A completare la salsa si aggiunge un composto fermentato a base di ritagli di pecora e ceci.
[[ima2]]Nel piatto principale si troverà sul fondo un paté di interiora di pecora, lo stracotto, delle bietole appena scottate, fave fresche cotte alla brace e olio di mirto. Ad accompagnare il piatto principale abbiamo: Mojanat di ritagli di pecora e spinaci, l’interpretazione di Marco di una tipica focaccia palestinese, che diventa pane di semola cotto a vapore, successivamente farcito con ritagli di carne di pecora, spinaci, poi spennellato con lo strutto di pecora e portato a fine cottura in forno. Completato con una spennellata di agresto.
C’è poi il Makdous di cetriolo, altro riferimento alla cucina pasquale palestinese. La parte esterna del cetriolo viene fatta lattofermentare e poi farcita con un impasto a base di noci, aglio e paprika. Ancora, Magiritsa, una tipica zuppa greca che veniva preparata dalle donne di Lesbo. Nella versione dello chef, la zuppa è composta dal quinto quarto della pecora che viene prima bollito, poi cotto in brodo, poi completato con lattuga, aneto e un emulsione all’uovo – la zuppa ci ha lasciato senza parole.
L’idea del piatto si avvicina anche alla celebrazione della primavera in quanto rinascita agricola (l’utilizzo dei primi prodotti che ne segnano l’incedere) con chiari riferimenti ai riti che, nelle diverse culture, ne invocavano l’arrivo e auspicavano la clemenza. A questo Marco ha aggiunto una serie di riferimenti ai riti pasquali che, nelle diverse religioni mediterranee, attraverso un grande sacrificio (ad esempio nella religione cristiana si sacrificava il figlio di Dio) si attendeva la rinascita della natura. «Abbiamo messo insieme usanze palestinesi», spiega il cuoco, «le zuppe greche delle donne di Mitilene, preparazioni delle culture rurali dell’entroterra come vignarola, virtù teramane eccetera, raccontando gli intrecci tra culture e popoli apparentemente lontani».
Il racconto e il lungo assaggio di questa portata complessa, nella sala di ScottoJonno, crea un momento di particolare intensità, indotto dalle inevitabili riflessioni sul tema, ma anche dall’alternanza di sapori, consistenze, culture, interpretate da una mente colta e sensibile che si è scelto una strada per niente facile o scontata.
La sua presenza a Napoli, in un momento di grande attenzione verso la città, rappresenta un valore aggiunto perché questo è stato un regno trapassato da notevoli influenze culturali, e Ambrosino ne ha piena consapevolezza. È motivo di orgoglio il suo sapere andare oltre, non fermarsi a convincere attraverso la bontà dei piatti o una ricetta estrosa, al passo con le tendenze del momento. Si coglie l’anima nobile dello chef in piena sintonia con il luogo. Un portavoce di rilievo, unico e straordinario nel suo genere.